Sebbene il tema della disabilità sia stato affrontato solo di rado dalla Corte di Giustizia europea, le poche pronunce esistenti in materia rappresentano comunque un autentico baluardo a difesa del diritto a non subire discriminazioni per ragioni connesse alla disabilità; e ciò non soltanto per le persone affette da disabilità ma anche per quanti, pur non vivendo in prima persona questa condizione, sono comunque bersaglio di trattamenti discriminatori per ragioni ad essa connesse.
A rilevare in tale ultimo senso è stata, in particolare, la sentenza del 17 luglio 2008, pronunciata all’esito della causa C-303/06 Coleman c. Attridge Law and Steve law, laddove si è avallata un’interpretazione in chiave estensiva della tutela originariamente riservata alle sole persone affette da disabilità dalla Direttiva 2000/78/CE in materia di parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, anche ai loro familiari attraverso il riconoscimento ufficiale del fenomeno della cd. “discriminazione di rimbalzo”, un vero e proprio danno collaterale che colpisce coloro i quali assistono le persone con disabilità.
Il case- law alla base della decisione della Corte ha come protagonista una donna inglese impiegata come segretaria presso uno studio legale che, a distanza di un anno dalla sua assunzione, aveva dato alla luce un bambino affetto da gravi patologie e, pertanto, bisognoso di cure specializzate e di assistenza continua da parte della madre. Tale situazione aveva avuto forti ripercussioni anche sulla sua attività lavorativa, cosicché la donna, non potendo contare sulla comprensione del suo datore di lavoro, si era trovata costretta a rassegnare proprie dimissioni. Trascorso qualche mese dall’accaduto, la signora Coleman – lamentando di essere stata vittima di un licenziamento implicito e discriminatorio ai sensi degli artt. 1 e 2 della direttiva 2000/78/CE – aveva dunque proposto ricorso dinanzi al Giudice del Lavoro britannico il quale, a sua volta, aveva investito della questione la Corte di Giustizia europea in merito all’applicabilità o meno della direttiva suddetta ai soli lavoratori affetti da disabilità o anche ai lavoratori che si prendono cura di un familiare disabile.
La Direttiva del 2000 – ove sono richiamati una serie di fattori di rischio di discriminazione diversi da razza, origine etnica e dal genere, quali: religione e credo personale, età, disabilità e orientamento sessuale – è stata fatta oggetto di un’attenta analisi da parte dai giudici, i quali, partendo dal dato letterale hanno evidenziato come lo stesso legislatore europeo nel riferirsi alla “disabilità” quale causa di trattamenti discriminatori, in realtà, richiamava una condizione assai più complessa, non ricollegata direttamente ed esclusivamente alla condizione personale del soggetto considerato. Posto pertanto che nella direttiva si parla di discriminazione fondata sulla disabilità, senza chiedere l’attribuzione diretta di siffatta condizione, la Corte ha osservato come: «da queste disposizioni […] non risulta che il principio della parità di trattamento che essa mira a garantire sia limitato alle persone esse stesse disabili ai sensi di tale direttiva. Al contrario, quest’ultima ha come obiettivo, in materia di occupazione e lavoro, di combattere ogni forma di discriminazione basata sulla disabilità»; senza che la presenza di alcuni passaggi in cui la direttiva contiene disposizioni applicabili unicamente alle persone disabili, smentisca quanto appena affermato.
Sulla scorta di queste osservazioni, si è così arrivati alla conclusione che la ratio sottesa alla Direttiva 2000/78/CE non si rinvenga tanto nella protezione riservata a una determinata categoria di persone, quanto piuttosto nell’individuazione dei motivi indicati come fattori di possibile discriminazione; e non vi è dubbio che nel caso della signora Coleman sia stata proprio la disabilità a costituire «…il motivo del trattamento meno favorevole del quale afferma essere stata vittima». Tale interpretazione operata dalla Corte ha dunque permesso di ampliare notevolmente la sfera di applicazione soggettiva della Direttiva 2000/78/CE, senza tuttavia snaturarne la finalità antidiscriminatoria: sebbene infatti le originarie intenzioni del legislatore comunitario erano quelle di predisporre una tutela effettiva alle sole persone con disabilità, l’estensione della tutela in parola anche ai familiari dei disabili non tradisce affatto lo scopo ultimo della norma ma lo valorizza pienamente, soprattutto se si considera la frequenza con la quale gli stessi atti discriminatori di cui sono vittime i soggetti affetti da disabilità sono posti in essere contro persone che sono costretti a cambiare la loro vita con inevitabili implicazioni sull’attività professionale in conseguenza della malattia di un loro stretto congiunto.
Francesca Minasi